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LA CASSAZIONE HA SENTENZIATO: QUANDO PUO’ CHIUDERE LA PARTITA IVA IL PROFESSIONISTA

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La tanto attesa sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni unite è giunta, porta il n.8059 del 21 aprile 2016.

La sintetizzo proprio nella parte che riguarda l’articolo qui sotto, citando il testo originario:

il compenso di prestazione professionale è imponibile a fini IVA, anche se percepito successivamente alla cessazione dell’attività, nel cui ambito la prestazione è stata effettuata, ed alla relativa formalizzazione”.

Come si vedi la soluzione non è favorevole all’opinione precedentemente espressa; ci si dovrà adattare.

Ora si tratta di vedere come gestire questa nuova situazione, inafatti si pongono seri problemi interpretativi nell’operare quotidiano:

  • i costi sostenuti nel periodi di cessazione di attività ed in permanenza di partita IVA che trattamento fiscale hanno sia per IVA che per le imposte dirette?
  • L’inattività è causa di esclusione dagli studi di settore, anche se tale situazione non è possibile dichiararla formalmente all’Agenzia delle entrate?
  • Detti compensi “postumi” saranno soggetti a trattamento contributivo con il rischio di non farli valere quando il professionista è in pensione ed il periodo di permanenza forzata della partita IVA si realizza in un periodo inferiore alla maturazione dell’adeguamento della pensione; per fare due esempi: 5 anni per Inarcassa e 3 anni per la gestione separata INPS.

Risolto un problema se ne creano altri più numerosi.

Di seguito l’articolo che pubblicavo lo scorso 13 ottobre.

Saranno le Sezioni Unite della Corte di Cassazione a decidere se le prestazioni svolte dai professionisti incassate successivamente alla cessazione dell’attività siano o meno rilevanti ai fini dell’Iva, così è prescritto dalla ordinanza n. 24432 del 17 novembre 2014.

Dunque, una parola finale su questo caso, a suo modo assurdo, arriverà presto.

In cosa consta l’assurdità? La prima ed assoluta si presenta nel caso del decesso del professionista, secondo l’Agenzia delle entrate , questi, al pari del professionista che limita la propria cessazione all’attività e non anche alla vita, dovrebbe mantenere aperta la partita IVA fino ad incasso e fatturazione dell’ultimo compenso; così scrive nella Risoluzione 20/09/2009 n. 232/E. A margine si rileva che la stessa Agenzia rinuncia ad agire nei confronti dell’evasore per “difetto di requisito soggettivo…”.

Cosa succede invece a chi cessa l’attività, ma… sopravvive?

Il Decreto IVA è quanto mai chiaro: il professionista comunica la cessazione dell’attività entro 30 giorni (comma 3, art. 35 DPR 633/72). Si badi bene: “dell’attività” non anche degli incassi o dei pagamenti; mentre il momento della fatturazione scatta al più tardi al momento dell’incasso. Quindi se il professionista cessa l’attività oggi ed incassa il proprio compenso, non ancora fatturato, dopo un giorno o dopo un anno o più, non è tenuto all’emissione della fattura, ma, detto compenso, è soggetto solo all’imposta sui redditi, per questo si consiglia al Committente l’assoggettamento a ritenuta d’accordo quando sia sostituto di imposta. Imposta indiretta potrebbe essere rappresentata dal bollo, qualora il percipiente rilasciasse ricevuta per quietanza. Altra imposta indiretta potrebbe essere l’imposta di Registro in misura proporzionale (0,50%).

Sempre il Decreto IVA è indiscutibile nell’indicare il presupposto impositivo nel momento del pagamento del compenso al professionista (comma 3, art. 6 del DPR 633/72).

A parere di chi scrive, la cessazione dell’attività di un professionista avviene al momento nel quale lo stesso interrompe qualsiasi attività professionale, autofattura i beni assoggettandoli ad IVA, ne dà comunicazione alla clientela, quindi presenta la dichiarazione di cessazione all’Agenzia delle entrate per la chiusura della partita IVA. Gli incassi dei compensi non ancora fatturati, ma maturati nel periodo di attività, avranno il trattamento tributario illustrato, ma non l’imponibilità IVA.

La soluzione prospettata dalla citata Risoluzione ha un ulteriore punto debole: non coordina il comportamento da tenersi per l’IVA per i compensi ancora da incassare con l’IVA che il professionista andrà a pagare nel periodo di inattività e contemporanea partita IVA in vita; men che meno affronta il tema delle imposte sui redditi e l’IRAP, per non dire dei contributi previdenziali a cui il professionista sarà obbligato da soggetto già pensionato e con il rischio di versarli a perdere. Se è pur vero che l’IVA è imposta europea, per cui potrebbe darsi un obbligo europeo sottostante la Risoluzione (non ne fa cenno), resta l’obbligo “italiano” per l’Agenzia delle entrate di indicare al contribuente il proprio parere sulle altre imposte e sollecitare INPS e Casse professionali ad esprimere il proprio per i relativi contributi previdenziali.

Un comportamento senz’altro prudente, per il contribuente, potrebbe essere adottato emettendo la fattura appena prima della cessazione dell’attività solo per quei compensi ancora da riscuotere da clienti “consumatori finali” che non hanno la partita IVA, e per quei committenti che applicano regimi speciali che non consentono loro la piena detrazione dell’imposta.

Ad ogni buon conto, restiamo in fiduciosa attesa della sentenza delle Sezioni Unite cui comunque ci assoggetteremo.

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